domenica 29 ottobre 2017

Giusta e Caterina Conjus, le ultime streghe di Cabras assassinate dall'Inquisizione


ANIME SOSPESE

dedicato a giusta e Caterina Conjus ,
di Cabras, assassinate dall'inquisizione

(Giuseppe di Biasi)


Anno Domini 1.526, Cabras.
Dalla piccola finestrella col doppio potallitu, cinta tra i caldi mattoni di ladrini del poderoso muro,  filtrava, nella grande cucina campidanese, la dorata luce dell’alba.
Era quella l’ora prediletta da Giusta Conjus.
Apriva gli occhi ancor prima che il sole annunziasse il nuovo giorno perché era punto di principio, per lei, esser desta e aver già tutto pronto quando il lieto evento della rinascita quotidiana di Majistu fosse avvenuto.
Svelta, adempiuto alle abluzioni mattutine e indossate comode vesti, attraversava il selciato del grande cortile e provvedeva a riempire i crogiuoli d’acqua e cibo per Cuaddu, Boi, Bacca, Pròcus e Puddas, i suoi amati animali. Li chiamava così, ostentando il nome proprio, perché li considerava suoi pari. Grazie a loro aveva potuto condurre una vita più che agiata, anche quando il suo amato consorte era dipartito all’altro mondo, lasciandola sola e povera con la figlioletta Caterina, appena nata.
Nonostante l’immane sofferenza per la gravissima perdita, Giusta non si era persa d’animo. Con determinazione e lodevole ingegno aveva preso in mano le redini de sa siènda, coltivando a nuovo i terreni che le erano toccati in eredità dalla morte di sua madre e riuscendo, in pochi anni, a potersi permettere uomini e donne a dipendenza.
Tutti, nel paese, avevano ammirato la sua straordinaria forza d’animo e capacità.
Era stata davvero in gamba Giusta.
Ed era bellissima, pure.
Molti avevano provato a corteggiarla e qualcuno più audace l’aveva anche chiesta in sposa, ma Giusta non ne voleva sapere: restava innamorata e fedele al suo diletto marito defunto, pensando solo a lavorare sodo e a crescere la sua adorata bambina.
Caterina aveva appena dieci anni quando Giusta, che in campagna ci andava, ormai, solo per vedere il progresso del grano, dei meloni a crudo e delle viti, decise di metter su bottega. Aveva sempre sognato di dedicarsi al commercio e ora poteva facilmente esaudire questo desiderio, cominciando col vendere i prodotti della sua campagna e dei suoi animali: farina, meloni, uva, vino, latte, formaggi, uova …
Il commercio divenne molto florido e ben presto si arricchì dei derivati della filiera.
Giusta, aiutata da due delle sue braccianti, cominciò a confezionare pane e dolci.
Ogni anno, per i riti pasquali, is arrùgas  de Crabas si animavano col traffico di innumerevoli carrètas de arrìcus  che giungevano da ogni dove per comperare, da Giusta e Caterina, merci e prendas.
Ogni prelibatezza era esposta in bella mostra, da un lato, me in s’intràda de sa buttega, lasciando spazio, nell’altro lato d’ingresso, a un bancale ove campeggiavano i tessuti più pregiati, muncadoris tanàus dipinti a mano, artigianato e gioielli. Alla vendita di questi era stata impiegata Caterina che, nel frattempo, diventata una intraprendente giovinetta, mostrava un particolare interesse verso le manifatture, riuscendo a crearne di proprie con abilità non comune alla sua età.
Giusta l’aveva cresciuta educandola a saper fare di tutto, ché nella vita non si sa mai.
Caterina, tuttavia, già dotata di suo, fin da piccola si era distinta nel confezionamento di monili, apprendendo l’arte da Tzia Annika, una vicina di casa che aveva ereditato dalla nonna le tecniche per la lavorazione dei metalli, delle pietre e dei coralli. In ogni momento libero della giornata, la fanciulla s’infilava nel cortile della vecchia donna e, non vista, spiava ogni suo movimento dall’anta semiaperta della fucina. Annika si era accorta da molto tempo d’esser spiata, ma non l’aveva mai dato a vedere. Saggiamente, percependo la passione della ragazzina, aveva lasciato che lei guardasse di nascosto, facendo in modo che la sua curiosità levitasse.
Aveva sempre pensato di dover iniziare un’erede alla sua arte e passare il testimone.
Non aveva avuto figlie dunque comprese che quella bambina le era stata mandata dalla Madre e attendeva il tempo giusto, quando fosse stata abbastanza motivata all’apprendimento dei misteri, per tramandarle la majhia.
Sommamente concentrata nella sua opera, ella perdeva il tempo e lo spazio, dedicandosi anima e corpo a creare modellini di cera sui quali plasmava uno stampo in argilla, poi, praticati due fori, uno in alto e uno in basso, scaldava la cera che fuoriusciva in bollente rivolo, riempiendo, infine, lo stampo vuoto, del metallo che teneva pronto in fusione. Caterina quasi non respirava nemmeno quando, una volta raffreddato il metallo, la donna spaccava l’argilla estraendo oggetti lucenti, non ancora perfetti e che limava energicamente, ma con delicatezza, fino a smussare ogni imperfezione.
-         “Stupàndi de inguni! – Esci da lì!” – le ordinò un giorno Annika, senza alcun preavviso.
Caterina sobbalzò, ma comprese che la vecchia sapeva da sempre che lei era lì ad osservarla di nascosto.
Come fosse stata la cosa più naturale del mondo, la ragazzina era balzata fuori dal nascondiglio e, da quel giorno, senza dire una parola, sedette al banco di lavoro dell’alchimista diventando sua fedele e devota aiutante.
La sua  vera passione, tuttavia, non era tanto fondere quanto scolpire.
Annika restò senza parole quando Caterina, col candore tipico della pubertà, le aveva confidato di sapere chi abitasse in ogni pietra.
- “E chi ci abita?” – le chiese.
- “Gente!” – aveva risposto, ermetica. Intendendo per “gente” qualsiasi forma vivente: dagli insetti, ai fiori, agli animali, alle persone.
Dopo un attimo di silenzio aveva aggiunto: “Fuèddant! - Parlano!” – sapendo che non doveva aggiungere altro per essere capita da Annika che, infatti, aveva annuito con fare complice.
- “Bessèndi fùnt!” – esclamava la gente del paese, con evidente punta di malizia, al passare della vecchia e della bambina quando si incamminavano verso le rive dello Stagno a raccogliere sassi. Le canzonavano, perfino, mentre, dopo ore in riva col sedere per aria, rientravano coi grembiuli pesanti, pieni di pietre grandi e piccole, che portavano come avessero il più grande dei tesori.
-“Alliày osàtrus … Arragollèndi preda! Arratza ‘e makìmini!”.
Annika e Caterina, incedendo fieramente, attraversavano arrùgas y arrughìtas, non curandosi minimamente di chiacchiere e malevoli commenti.
Una volta arrivate al laboratorio, depositavano le pietre trattandole come fossero animas antigas, delicatamente, con la consapevolezza della creatura in esse contenuta e che Caterina avrebbe aiutato ad uscire. Quando la fanciulla cominciò a esporre i suoi lavori nel negozio della madre, i maldicenti dovettero tapparsi la bocca: accanto ai  pregevoli manufatti di Annika, che variavano in tutti i settori dell’utensileria domestica e rituale spiccavano, e cominciarono a catturare l’attenzione di tutti gli avventori, le incredibili figurine in pietra di Caterina.
Dal creativo banco, occhi, braccia e slanciati corpi si protendevano come in magica danza. La pietra aveva perso ogni pretesa d’esser inanimata e voleva parlare.
Non un’anima viva poteva restare insensibile innanzi alle statuine litiche, e dal restare ammaliati all’acquisto, il passo era breve.
Per quanto era riuscita benedetta dalla fortuna, sa buttega venne intitolata alla Madre. Annika riprese a fondere bronzo secondo gli antichi dettami e, poiché da cosa nasce cosa, ed è incredibile quel che donne messe insieme riescono a fare, Giusta decise di adibire un intero spazio all’esposizione dei bronzi di Annika e i sassi di Cate.
La voce si era sparsa in tutta l’Isola: gente che veniva a comprare e venditori che portavano a vendere le opere di Annika e Cate, non ne mancavano mai. Era rara la casa dove non apparissero, appesa in ingresso a benedire una Dea Madre di Annika o una scultura di Caterina, al centro della cassa.
Giusta, temendo il malocchio per l’aumentata ricchezza, provvedeva a fare beneficenza, distribuendo pane e dolci ai poveri del paese.
La serpe dell’invidia, si sa, è una brutta bestia che si placa solo quando l’invidiato cade in disgrazia, ché  di questa essa si nutre e si sazia. Ma la grazia, presso la casa di Giusta, aveva sostituito la disgrazia già da qualche anno, dunque non era ragionevole ritenere che fosse possibile tenere il mostro a bada a lungo.
Lei ne era consapevole e, con grande fede, concentrava le sue energie nelle continue opere di bene, affinché le malefiche forze potessero essere, quantomeno, sedate e pregava la Madre affinché assistesse lei e Caterina, ormai giovane donna anche lei, in ogni giorno della vita.



Sinis, anno mater 594. MAGGIO.

Pippìa de Angùya - Realizzazione con lievito madre su infiorata di Graziella Pinna Arconte 

Adèla era felice.
Era stata prescelta, dalle Sagge, per gli addobbi dei riti della fioritura.
Lei e altre dodici giovinette si erano occupate della raccolta dei petali e delle aromatiche. Li avevano stesi al sole in ampi teli, riempiendo l’aria di inebrianti aromi di rosa selvatica e mentuccia. Una volta pronti, tutti i petali erano stati raccolti nei canestri e lei insieme alle altre prescelte li avevano sparsi per le vie.
Non vi era abitazione, a Tharros, dove non fossero stati appesi alle finestre colorati stendardi e per le strade, già addobbate da tappeti di straordinaria fattura, si levava alto il profumo della mistura floreale stesa sul selciato.
Lieta, la musica delle launeddas levava al cielo una dolcissima melodia, chiamando il popolo alla processione. Dalle case uomini e donne uscivano in un moto gioioso, scendendo per i viali come acqua che scorre sul letto del suo ruscello, accorrendo al richiamo irresistibile dei suoni  e dei profumi.
La festa dei nove giorni di Lunistizio era cominciata, per rendere omaggio alla Dea che avrebbe benedetto i suoi figli prediletti e iniziato le giovani prescelte alla cura dei Sacri Elementi.
Regola e Armonia regnavano indisturbate e Adèla, principalmente, gioiva di questo, grata alla Madre d’esser nata presso le Sue contrade, in una natura paradisiaca tra Cielo, Mare e una Terra generosa e prodiga di frutti.
Per nove giorni, dimentichi di lavoro e fatica, tutti i cittadini della prosperosa città si abbandonarono ai ritmi delle gioconde celebrazioni, fino alla notte del nono giorno quando, sotto l’egida di Nanna Seléne e la sua piena luce, le giovani vennero a Essa consacrate.
Quando, con grande solennità, la Saggia Sinispella ebbe recitato la liturgia rituale, il collo di ogni fanciulla venne cinto da una catena d’oro con appeso uno scarabeo in diaspro verde  estratto dal cuore del Monti Arci.
Gli scarabei, di preziosissima fattura, erano stati realizzati da Lenàrda in persona, la più esperta orafa della città. Con grande perizia essa aveva inciso dietro ciascuno di essi la formula magica del cuore e della mente, dopodiché i meravigliosi monili erano stati imbrebàus dalla potente Jana Lisandra, Majista de Iskola e Meyghina, che presiedeva il rito con le altre Sagge al governo della città.
I cerimoniali erano stati chiusi felicemente. Tutto era stato fatto bene.
Tutto era andato per il meglio!
La gente era tornata felice alla propria dimora, sicura che sarebbe stato, anche quello, un altro anno benedetto dalla Madre.
Come sempre nei secoli dei secoli.
Adèla e le sue amiche volavano sul selciato. Avevano onorato la Dea nella bianca processione e gettato su nenniri a mare per la rigenerazione.
Da quel momento, ogni giorno, avrebbero officiato i Sacri Riti, con la consapevolezza dell’importante ruolo che avrebbero rivestito per la salvaguardia della loro comunità, protette, a loro volta, dai potenti influssi del consacrato scarabeo.
Intanto, gli innumerevoli ospiti giunti da ogni parte della Sardegna, e ospitati presso gli ostelli del porto, cominciarono a raccogliere suppellettili e mercanzie di cui avevano fatto incetta a Tharros in quei giorni. In breve tempo, una lunga carovana di uomini, donne, bambini e bestie da soma muoveva alla volta delle rispettive destinazioni.
Molti di essi avevano profittato di quei giorni per vendere i prodotti tipici del loro territorio, traendo grande profitto e guadagnando ordini per l’anno successivo.
Si beavano di poter ancora godere, a Tharros, delle celebrazioni dedicate alla Madre, raccontando che da loro stava cambiando tutto da quando governava Ospitone il quale si era convertito al nuovo culto del Dio Cristiano e voleva sottoscrivere un trattato di pace, su richiesta del Papa Gregorio Magno, con Zabarda, il magister militum di Fordonjanus. Questi, dicevano, era stato incaricato dall’imperatore Maurizio di condurre una campagna senza tregua contro i barbaricini che non intendevano rinunciare al Culto della Dea, fino a completa sottomissione.
Dicevano che nella pianura, dopo molti anni di una campagna iniziata nel 537, il nuovo culto era stato già abbracciato e che per paura di Zabarda e dei suoi sgherri, molte genti avevano ceduto e ora inneggiavano al Dio Padre e non più alla Dea Madre. Dicevano di stare attenti e che presto sarebbero arrivati anche sulla costa a far cadere anche gli ultimi presidi di quello che già veniva chiamato “vecchio culto”.  Dicevano che le genti avevano dovuto subire troppi soprusi e che molti avevano dato la vita per la Sacra Acqua, il Sacro Fuoco e le Sacre Rocce. Dicevano della terribile fine che era stata riservata alle Majiste e alle Janas sacerdotesse del Culto. Esse venivano violate, squartate, uccise e, infine, arse senza degna sepoltura.
Tali racconti, la cui incredibile eco era giunta a Tharros già da qualche tempo, trovarono conferma nelle moltissime testimonianze delle centinaia di persone che erano riuscite a partire da Cornus, da Calmedia e da Nora, nonostante i severi controlli e i divieti imposti da Zabarda. Gettarono una bruttissima ombra sui festeggiamenti, apparendo, purtroppo, assolutamente credibili.
Una volta ripristinata la normalità in città, fu convocato il Grande Consesso e decisa una strategia di difesa.
Nessuno poteva immaginare che Gregorio Magno in persona aveva scritto una lettera a Ospitone congratulandosi per aver egli abbracciato la nuova fede; né, tantomeno, che Ospitone avesse già preso deprecabili accordi con Zabarda e dunque, costui, avesse deciso di compiere un’ardita incursione a Tharros per infliggere il colpo mortale alla Dea.
Nella stessa notte, dopo il Grande Consesso, mentre la città riposava sotto lo sguardo vigile delle sentinelle, di guardia presso la Nera Rocca, un manipolo di sgherri riuscì a penetrare le mura, aprendo la via a centinaia di guerrieri che poterono agire di sorpresa, facendo strage di cittadini inermi, donne e bambini.
Ripresisi dalla sorpresa, tuttavia, i guerrieri di Tharros riuscirono a opporre resistenza e la lotta, in città, durò lunghi giorni.
Il sangue scorreva a fiumi sul selciato. L’orrore dilagava via per via, casa per casa.
I pochi combattenti sopravvissuti, uomini e donne parimenti addestrati, lottavano strenuamente e con grande coraggio, in una contesa impari dove già era evidente chi avrebbe avuto la meglio.
Ma resistevano!
E resistettero per giorni e giorni, ottenendo una tregua.
Ma quando la battaglia riprese fu ancora più cruenta e orrida.
Un manipolo di parabolani, entrati in città al seguito degli sgherri, profanò la Sacra Porta dei Culti ove le Sagge e le giovani iniziate si erano ritirate nella solenne preghiera di invocazione.
Belve umane prive di ritegno si scagliarono contro le Sacerdotesse che resistettero indomite fino a definitiva capitolazione.
A loro fu riservata la peggiore delle sorti. Non una sopravvisse.
Sui loro corpi fu riversata la peggiore lascivia e quelle bestie lerce e immonde fecero scempio di millenni di bellezza, violandola, squartandola e bruciandola nei cineroni predisposti nella pubblica piazza. Da questi emanava un macabro miasma che appestava l’aria, per i pezzi dei cadaveri che vi venivano bruciati.
Adèla era riuscita a scappare passando da un cunicolo sotterraneo che, attraversando la città, arrivava fino alla spiaggia della Laguna. Ma arrivata all’uscita rozze mani afferrarono le sue delicate spalle di adolescente, strappandola fuori come in violenta nascita. Comprese che la sua ora era arrivata.
Riuscì a sfilare lo scarabeo dal collo e affinché non cadesse in mani nemiche, velocemente, riuscì a nasconderlo sotto la sabbia.
Poi tenne lo sguardo fisso al cielo e rese la sua dolce anima alla Madre che, rassicurante, la accolse tra calde braccia.


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Anno Domini 1.526, Cabras.

Il Cosmo intero, in quel fausto riverbero di Luna, era chiuso nella Sacra Fucina di Annika. Durante la mattina di quella fausta  giornata, cercando pietre levigate nella spiaggia sulle rive dello Stagno, Caterina notò qualcosa che brillava tra la sabbia e, incuriosita, scavò col dito sotto i granelli, portando alla luce un piccolo manufatto in pietra verde ricoperto di concrezioni calcaree, dunque chissà da quanto tempo era lì sepolto, si disse. La sua sorpresa, tuttavia, era destinata ad aumentare di gran lunga poiché, estraendo l’oggetto venne fuori, dappresso, una lunga e bellissima catena d’oro. Il cuore della fanciulla prese a battere talmente forte che temette uscisse fuori dal petto. Guardandosi attorno con circospezione, nella speranza che i soliti pettegoli non la stessero osservando, si accertò di essere perfettamente sola e corse verso Annika che, nel frattempo, arrivata presso l’altro lato della spiaggia, era china e assorta nella ricerca delle migliori pietre. Caterina giunse al suo cospetto silente come leggera brezza e sol per questo moto, simile a un alito appena accennato, Annika comprese che la ragazza dovesse comunicarle un segreto, qualcosa di eccezionale che doveva esserle accaduta nella ricerca. Anche questo, tuttavia, era nelle sue aspettative: sapeva che, prima o poi, la Madre avrebbe mandato un segnale speciale per la cerimonia di iniziazione della ragazza.
Quando, però, Caterina schiuse le dita della mano, svelando ai suoi occhi il tesoro appena liberato dalla sabbia, Annika trasalì.
Stavolta la Dea aveva davvero voluto strafare!
Senza dire una sola parola, le due donne rientrarono a casa, riempiendo i loro grembiuli di la qualsiasi per evitare inutili pettegolezzi.
Con uno speciale spazzolino Annika liberò l’oggetto dalle concrezioni.
Ciò che apparve  andava ben oltre ogni sua aspettativa! Esclamò ad alta voce come non le era mai accaduto di fare: “Madre mia!” e, subito dopo, davanti all’incredula Caterina, pianse calde lacrime e cominciò a pregare.
Al tramonto Caterina, alla presenza di Giusta commossa testimone, ricevette i doni di passaggio della majhia  dalle mani di Annika che, al culmine della commozione, cinse il sottile collo della fanciulla con la più bella tra le collane d’oro con scarabeo, consapevole che altro importante collo l’aveva indossata tanto tempo addietro.
Lo spirito di Adèla trovò degna dimora presso Caterina la quale, da quel giorno, mutò atteggiamento, esibendo uno sguardo profondo e conscio in un portamento fiero e solenne nell’incedere. Cominciò ad approfondire la conoscenza del diaspro, acquistandolo dai mercanti dell’isola per realizzare scarabei simili al suo.
A Cabras, si sa, il culto della Dea non è mai venuto meno nei millenni, dunque in breve tempo non il collo di una bimba, fanciulla, madre, vecchia, rimase senza scarabeo latore di fertilità, bellezza, ottemperanza, abbondanza e coraggio.
In tutta l’Isola Giusta e Caterina avevano, ormai, raggiunto una grande fama.
Chi voleva loro bene ed era loro grata diceva cose meravigliose delle due donne, imbattibili in maestria, abilità nel commercio, bellezza e bontà d’animo.
Ma c’era chi voleva loro molto male, chi crepava d’invidia per i successi della loro intrapresa, chi proprio non poteva sopportare la loro bellezza e ricchezza.
Queste anime dannate, ree d’aver confezionato più di una fattura malefica per le due donne, mai attecchita per intercessione di Annika, continuavano ad agire nell’ombra, ordendo trame d’ogni genere e fomentando sempre nuovi animi alla diffamazione, alla calunnia. Malelingue sempre più pervicaci insinuavano infami dubbi nella testa dei sempliciotti del paese, affinché codesti agissero da cassa di risonanza del pettegolezzo, alludendo alle non chiare vie che le due donne avrebbero percorso per accumulare i loro beni. Di bocca in bocca la calunnia era andata levitando e alle spalle di Giusta e Caterina era in agguato il rombo di un tuono della menzogna più potente, quella che, passando dall’accusa di prostituzione era già arrivata alla stregoneria e al patto col demonio. La prova? L’ostinazione al culto antico della Dea!
Tutto era pronto e si sentiva nell’aria il sentore della tempesta in arrivo.
Anche Annika l’aveva sentita, quando, in una notte di incredibile stellata apparve nel cielo un vortice potente che se la portò via, impedendole di proteggere le sue amiche per l’ennesima volta.
E fu mentre Caterina si strappava i capelli per il grande dolore della perdita della sua seconda madre, al capezzale di Annika che giaceva serena nel suo letto di petali profumati; mentre Giusta si occupava delle incombenze del funerale, che sentirono bussare ripetutamente alla porta.
Ciò che di surreale accadde da quel momento in poi può essere riassunto da un semplice concetto: il gorgo dell’infamia si abbatté su di loro.
Da Cagliari, a bussare alla loro porta, era arrivato, su segnalazione di un nutritissimo numero di cittadini di Cabras, mandato dall’Inquisitore Generale, Tomas de Torquemada, il Primo Inquisitore, Sancho Marin.
Accusate sommariamente, a Giusta e Caterina fu solo concesso di seppellire la cara Annika, secondo il rito del Dio cristiano.
Indi furono arrestate e, private di qualunque diritto di difesa, vennero processate e, accusate di superstizione e professione dell’antico culto, vennero penitenziate e private di tutti i loro beni, ceduti, in salvezza e remissione dei loro abominevoli peccati, alla Chiesa.
Dissero che fu fatta salva loro la vita.
Dissero che le due donne si rifugiarono, cambiando nome, in un paesino dell’interno. Dissero che non era vero.
Dissero che Giusta e Caterina erano state impiccate nella spiaggia dello Stagno dove Cate parlava alle pietre cercando il senso poetico della Vita, con Annika.
Dissero che i corpi erano stati portati a Cagliari e, po su scramentu, bruciati nei tredici roghi accesi in piazza contro la stregoneria.
Dissero che molta gente di Cabras era andata a vedere e rideva felice, e batteva le mani, perfino.
Tutti dicevano, nel bene e nel male, a Cabras, di Giusta e Caterina.
L’inquisitore intervenne e azzittì le lingue lunghe, minacciando d’arresto coloro che avessero avuto una sola parola d’amore per ricordare quelle streghe malefiche.
Pretesero l’oblio, ma non lo ottennero.
Ogni sera, anime buone con gli occhi bagnati, volgevano il volto alla Madre e pregavano che avesse accolto tra le sue calde braccia le anime delle amatissime Giusta e Caterina Conjus.
Dal Sacro Consesso, con la Dea, Adèla, le Sorelle Sagge, Annika, Giusta e Caterina, si compiacevano delle loro preghiere.



 http://www.storiologia.it/inquisizione/apertura.htm


Cabras, A. D. 2000

Camminava lungo le rive dello Stagno di Cabras, quando vide qualcosa brillare tra i granelli di sabbia …
Lassù la Dea, Adèla, le Sagge Janas, Annika, Giusta e Caterina, sorrisero felici.

KLIMT


  
Graziella Pinna Arconte

2 commenti:

  1. Un racconto che prende subito unico appunto no meloni a crudo ma meloni a secco

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  2. Brutta storia, ma scritta bene. Per fortuna oggi, grazie all'illuminismo, si può evitare le religioni tutte, senza finire perseguitati per questo. Il pericolo di un ritorno al passato peggiore viene da oriente con l'espansione islamica che minaccia l'Europa!

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